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WOYZECK Film con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggioFilm con lo stesso punteggio
  Stampa questa scheda Data della recensione: 16 ottobre 1980
 
di Werner Herzog, con Klaus Kinski, Eva Mattes (Germania, 1978)
 
Perché l'ormai celebre regista tedesco abbia scelto questo ancor più famoso frammento incompiuto del teatro tedesco del primo Ottocento sembra chiaro. Herzog è uno di quei registi che ripetono incessantemente il medesimo film: il suo eroe è l'individuo puro (e quindi spesso "diverso", ai limiti di quella che si considera la normalità), il fanciullo fiducioso nella vita, e non ancora maturato, non ancora guastato dalla società. E le storie di Herzog sono il racconto di come questa fiducia venga schiacciata, annientata dalla cosiddetta civiltà; dalla cultura, dalla storia, dall'educazione. Da quei valori, insomma, che comunemente si considerano conquistati per elevare l'uomo. AGUIRRE, nella sua sfrenata illusione di trovare l'Eldorado, l'oro nel cuore della foresta amazzonica; KASPAR HAUSER, trovatello sapiente abbandonato, e ritrovato per un istante, fra le pieghe della storia; STROSZEK, l'ex-carcerato che l'ingiustizia non ha distrutto, e che parte in America con la fiducia ingenua di molti emigranti, tutti costoro non erano che l'eterna ripetizione di questo tema herzogiano, che ora ritroviamo in Wojzeck.

Per Georg Büchner e per i suoi personaggi si parlò di "fatalità": nelle sue tragedie l'uomo ed il proprio destino sono governati da una legge superiore, che li domina e li distrugge, indipendentemente dagli sforzi compiuti per sfuggirla. Wojzeck era un personaggio attinto dalla cronaca: un poveraccio, ritenuto quasi un mentecatto, un soldato addetto ai lavori più umili e degradanti, soggetto all'esame sadico di qualche uomo di scienza. E attaccato unicamente, in modo quasi animalesco, ad una donna e al suo bimbo. La scoperta dell'infedeltà della donna sarà per lui la ragione di un'altra scoperta: quella di "dover" compiere il proprio destino, la propria missione. Eliminare l'unica fonte della propria felicità. In quanto al bambino, egli rimarrà solo: ma per riproporre una generazione più tardi, il destino di un altro Wojzeck.

Herzog non poteva non tradurre questa concomitanza di temi in modo non appropriato: ed infatti la sua illustrazione ambientale è estremamente seducente, ricondotta com'è nell'architettura barocca, meravigliosamente intatta, del villaggio di Telcz. Due altri elementi sembrano dominare la trascrizione cinematografica del regista: la fortissima interpretazione di Klaus Kinski, dolorosamente esasperata, visceralmente contorta. Ed una illuminazione violenta, quasi artificiale anche quando le scene si svolgono in esterno. E che sembra contraddire la dolcezza rigorosa degli sfondi. Riconosciuta l'alta qualità della ricostruzione herzogiana non si può però nascondere un'impressione di vuoto, di già visto, di non sufficientemente compiuto dietro le immagini del film, impressioni che sarebbe falso attribuire al solo fatto che il testo di Büchner è un frammento, ricostruito a posteriori. Ma che, nella sua frammentarietà, proponeva un discorso perfettamente compiuto.

La recitazione di Kinski, ad esempio, è straordinaria: ma è cosi violenta (oppure, non si lega ad una violenza equivalente nel tono del film) da risultare avulsa dal resto. E lo spettatore finisce con l'assistere ad un numero di prestigio ma quasi distaccato. Frutto, forse, di una ormai ben nota infatuazione artistica per l'attore, che Herzog proclama continuamente dai tempi di NOSFERATU. E poi: il personaggio di Eva Mattes, con le sue occhiate adescatrici, e quello del tenente belloccio, direttore della fanfara, sembrano uscire più da un'operetta viennese che dal tragico fato del mondo di Büchner. E ancora: la scelta del ritmo al rallentatore, nelle pur seducenti immagini finali del delitto, non contraddicono, stilisticamente, il resto del film? Che da cronaca rigorosa, storica, diventa interpretazione espressiva ed emotiva, tipica di una analisi di linguaggio com'è l'uso del rallentatore.

Il WOYZECK di Herzog finisce quindi con aggiungere ben poco al testo di Búchner, se non una corretta illustrazione. Non solo: ma a minacciare di tradirlo. Perché, accumulando tanti piccoli errori Herzog finisce con dare l'impressione che Wojzeck uccida per gelosia. Ed allora la dimensione tragica, universale del discorso di Büchner che innalzava la cronaca banale a riflessione filosofica sul destino dell'uomo, arrischia di trasformarsi in quella di una commedia romantica. Come dire, capire l'autore a rovescio: che proprio per il suo rifiuto del romanticismo allora imperante, per la sua predilezione anticipatoria per un realismo crudo e esasperato deve la sua modernità. Ed i legami con il ritorno all'espressionismo, proprio di un teatro tedesco contemporaneo.


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